VANITAS

“O vanità immensa, ha detto Qohèlet,
o vanità immensa, tutto è vanità.
Che vantaggio viene all’uomo da tutta la fatica
in cui si affatica sotto il sole?”


Qohèlet, fratello Qohèlet, amico Qoèlet, sono passati più di duemila anni e le tue parole – scandalo di ogni pensiero, in ogni filosofia o religione – inchiodano ancora il nostro animo al terrore.
Non fatichiamo a comprenderti Qohèlet; il tuo urlo chiaro, essenziale, pungola e spaventa perché dietro le risposte affettate, dietro volti che per noi valgono come alibi, vediamo agitarsi le tue parole: vanità immensa: tutto è vanità.
Non Panta Rei, tutto scorre, formula di successo e tutto sommato mondana, ma tutto è vuoto, senza senso, forse addirittura nulla.
Sapresti rispondere a Qohèlet tu che leggi queste parole?
Cosa avresti da rispondere alla semplice costatazione: “Tutta la fatica dell’uomo è per la sua bocca, eppure il suo desiderio non si sazia mai”?
Non il potere, non il danaro, non la gloria e non il sapere perché “se si aumentala scienza, si aumenta il dolore”.
È davvero così Qohèlet? Davvero “tutto è vanità e occupazione senza senso”?

Due millenni hanno portato tante cose, Qohèlet, tra queste una parola in grado di archiviare la lama tagliente della tua lingua degradandola a merce da esposizione tra le altre merci: pessimismo.
Eccoti allora, certo un po’ estremo, démodé, sfilare nella grande parata del pensiero: “Ecco Qohèlet!” sentiresti urlare da una folla di turisti in visita al gran museo delle idee, ognuno pronto a cogliere la propria curiosità per parlarne poi a lavoro il giorno dopo.
La tua parola acuminata, pietra di scandalo, è diventata inoffensiva dietro la teca: opinione tra le opinioni, così dicono quelli dalla mente aperta; mentre per altri sei solo un estremista, un maleducato, insensibile alle esigenze di un pubblico cui va sempre lasciata una via di fuga; una ginestra leopardiana, qualcosa insomma che, malgrado tutto, sappia consolare.

Ma possibile che basti fare #pessimism per smettere di pensare? Presi in odio la vita, perché per me era vanità tutto ciò che si fa sotto il sole. Tutto è vanità e agire senza senso”, parole come queste dovrebbero essere conficcate nel mezzo del nostro cervello per farci riflettere.
E come potresti tu essere un pessimista? Tu che fissando il vuoto hai saputo riconoscere che “Dolce è la luce / e bello è per l’occhio guardare il sole. / Se un uomo vive anche per molti anni, tutti cerchi di goderseli”, come puoi essere ridotto a un semplice detrattore dell’esistenza? Tu amavi la vita – “ho esaltato l’allegria, perché per l’uomo non c’è altro benesotto il sole, se non mangiare, bere e stare allegro” –, ne conoscevi il riso – tragico, ma non per questo meno dolce – e il sapore di un attimo di gioia – contraddizione apparente – era esaltato dalla vanità del tutto.
È forse in questa assurda gratitudine, Qoèlet, che incontrasti il tuo Dio, perché se può darsi qualche felicità questa “viene dalla mano di Dio”.
Certo era una divinità terribile: spargeva sulla terra i suoi figli destinandoli da principio a salvezza o a perdizione, facendo della morte la somma coincidentia oppositorumdove ritornavano uguali lo stolto e il sapiente, il giusto e l’iniquo, perché “la stessa sorte tocca e entrambi”.

Ma accanto al tuo urlo – “vanità delle vanità, tutto è vanità” – un’altra voce, più recente, si è alzata sopra le altre: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”.
Al tuo Dio, tiranno del vivente attento solo alla realizzazione di una totalità che ci sfugge, abbiamo fatto la pelle con il rasoio di Occam: ci sembrava inutile curarsi di uno che sta fuori dal mondo badando solo ai fatti suoi, tanto valeva vivere come se non fosse mai esistito.
Abbiamo rimosso il timore del giudizio come la gratitudine per la gioia data, abbiamo impresso il nostro volto su questo pianeta, abbiamo moltiplicato le cose sperando ci fosse una nuova forma di salvezza nel possesso, raddoppiato il globo in una realtà virtuale, cantato quanto mai prima la grandezza del nuovo e del mai visto.
Ma anche senza dio, Qohèlet, il mondo è rimasto tale e quale al tuo, forse solo più distratto ma con una costante sete di senso.

“O vanità immensa, ha detto Qohèlet,
o vanità immensa, tutto è vanità.
Che vantaggio viene all’uomo da tutta la fatica
in cui si affatica sotto il sole?”

Selezione in corso

Jacopo Ferrario,
Danilo Gatti,
Jasmin Prezioso

In via di definizione

LEGGI IL BANDO

RETHINKING SUBLIME

Campionario 2023 cambia pelle proponendosi come un momento di riflessione su un tema volutamente inattuale e apparentemente lontano dalla frenesia innovativa dei linguaggi contemporanei: il sublime.

Orrore, paura, terrore, ma anche esaltazione, brivido, estrema e paradossale affermazione della dignità e della grandezza dell’essere umano; la riflessione e la ricerca intorno al sublime hanno condotto, nel campo delle arti, a una radicale cesura nei confronti della millenaria tradizione del Bello, inaugurando un terreno nuovo, intimo e sperimentale cui, in primo luogo, si puntava ad evocare una sensazione, a mettere su tela, in musica o su qualsiasi altro supporto un mondo interiore.
Da Friedrich a Kandinskij il passo è breve.
Il Sublime non è un oggetto, è una categoria dello spirito.

Superare una visione oggettiva dell’opera enfatizzando la relazione, tema da sempre caro a Campionario, trova qui uno dei suoi momenti di avvio e, insieme, di ripensamento: il sublime è indissolubilmente legato a un’esperienza fisica, multisensoriale, alla relazione e al corpo come luogo determinante per l’accoglimento e la nascita del significato.
Il Sublime è l’irrompere dell’irrappresentabile nella rappresentazione.

In un’attualità dove l’esperienza corporea è sempre più mediata, sempre più spiritualizzata; dove i sovrumani silenzi delle regioni cosmiche girano nelle nostre mani in migliaia e migliaia di fotografie su Instagram, internet e televisione; dove i tour operator offrono pacchetti standard e domesticati per gli interminati spazi, che valore può avere recuperare e ripensare questa categoria, il Sublime?
È ancora possibile parlarne?

Lucio Barlassina,
Antonella Besana,
Alessandro Bianchi (Teste di Idra),
Mirko Bonfanti,
Raffaele Bonuomo,
Luca Caldironi,
Laura Capellini,
"Sempo" Vittorio Cendali (Teste di Idra),
Mauro Conti,
Anne Delaby,
Francesco Fossati,
Giovanna Matassioni Vasini,
Ileana della Matera,
Omar Meijer (Teste di Idra),
Jasmin Prezioso,

Giovanni Bartesaghi,
Jacopo Ferrario,
Danilo Gatti,
Chiara Ratti

Tinaia di Villa Sormani,
Via privata Sormani 3,
Inverigo (CO)

IMMAGINE / VERITÀ

Spunti e riflessioni navigando tra immagine e verità.

Giovanni Bartesaghi,
Raffaele Bonuomo,
Luigi Corbetta,
Jacopo Ferrario,
Alberto Galbiati,
Danilo Gatti

Giovanni Bartesaghi,
Jacopo Ferrario,
Danilo Gatti,
Chiara Ratti

Museo "Al castello"
Arosio (CO)

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QUAL'È IL LUOGO DI UN IMMAGINE?

Punto focale di Campionario 2021 è il vivo dialogo tra osservatore e osservato.

Le fotografie diventano protagoniste di un rapporto a doppio senso, in cui la percezione è figlia del vissuto personale, dell’ambiente e delle circostanze in cui è immerso il soggetto osservante.
Immagini, parole e oggetti dialogano con linguaggi differenti, suggerendo (in)visibili domande, in un percorso di distorsione sensoriale che accompagna il visitatore tra esperienze obbligate, in un esproprio della volontà come “pegno” per accedere ad altre conoscenze e coscienze.
Un doppio ruolo, quindi, quello giocato dai “campioni” fotografici, non più mera opera da osservare passivamente, ma attori attivi, capaci di stimolare riflessioni nell’osservatore e, pertanto, di divenire soggetti dell’azione.
Con Campionario, l’immagine interagisce esplicitamente con lo spazio circostante e trascende la sua fisicità, per indagare il sentimento.

Giovanni Bartesaghi,
Jacopo Ferrario,
Danilo Gatti

Giovanni Bartesaghi,
Jacopo Ferrario,
Danilo Gatti,
Graziella Mascheroni,
Chiara Ratti

Galleria Circolo Togunà,
Inverigo (CO)

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